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Montale e il canone poetico del Novecento


Perfect Link with Article Images on Facebook Si può parlare ancora di una centralità di Montale? La domanda, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, sarebbe apparsa persino retorica. Montale era infatti considerato il punto d’arrivo di una linea simbolista o ermetica o metafisica, senza che spesso si distinguesse bene fra queste diverse tendenze.

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Cerchiamo di rispondere muovendo in prima istanza da una constatazione persino ovvia. La centralità di Montale è intanto quella di un autore che non appare mai bloccato su un’unica linea di sviluppo e si presenta invece sempre disponibile a infinite correzioni, ripensamenti, ritorni all’indietro, contaminazioni di esperienze diverse. Senza essere mai eclettico, e anzi mantenendo sempre un timbro suo inconfondibile, Montale è in qualche modo compartecipe di tutte le tendenze fondamentali del nostro secolo: sembra avvicinarsi alla grande tradizione orfica del simbolismo e subito la controbilancia in direzione prosastica ed espressionista; condivide la cifra ardua e chiusa della poesia ermetica, ma respinge sempre la poesia pura e analogica; approda a un classicismo che intende tutelare la nobiltà e la decenza della forma e immediatamente lo interpreta in senso “modernista”; opta per un realismo basso e comico che presenta diversi punti di contatto con la ricerca delle neoavanguardie degli anni Sessanta e nello stesso tempo lo orienta verso esiti – niente affatto eversivi bensì ironicamente lucidi e citazionisti – che saranno propri delle poetiche postmoderniste.

Questa duttilità va messa sul conto della grande capacità di Montale di confrontarsi apertamente con la storia del suo tempo, riflettendola nella propria poesia e talora persino anticipandola. Per i suoi contemporanei essa ha costituito, soprattutto a partire da un certo momento, un problema critico aperto e persino spinoso. Dopo l’uscita di Satura, infatti, il profilo dell’ autore, e in qualche misura anche la sua stessa identità poetica, sono apparsi alterati o modificati. Le diverse, e per certi versi opposte, stroncature di Fortini e di Pasolini nascono anche dallo sconcerto di lettori che vedono deluse le loro aspettative e che non riconoscono il loro autore. Ha contribuito a tale cambiamento d’immagine anche l’evoluzione dei cosiddetti “eredi” di Montale – cioè Sereni, Zanzotto, Luzi – che vivono tutt’e tre, nella loro produzione degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, il disfacimento del simbolismo, avvicinandosi a posizioni più realistiche e più sperimentali. Chi aveva chiuso Montale in una linea precisa e precostituita, ignorando le tensioni interne della sua ricerca e i contrastanti segnali provenienti non solo dagli Ossi ma anche da certe zone delle Occasioni e della Bufera, ha visto porre in dubbio le proprie certezze. Così, negli anni in cui la lunga esperienza poetica di Montale attraverso il secolo (dal 1920 al 1980) volgeva al termine, è diventato sempre più difficile collocarla in una formula univoca. Contemporaneamente, anche il modo di concepire il suo posto e il suo ruolo nello sviluppo della poesia del nostro secolo si andava progressivamente spostando e correggendo.

Con l’uscita degli ultimi libri non solo si modificava l’immagine di Montale, ma con essa andava modificandosi l’idea stessa di un secolo di poesia: cambiava, insomma, il canone del Novecento. Ne abbiamo una conferma dalle antologie di poesia, che fra gli anni Cinquanta e Ottanta hanno avuto la funzione di determinare il canone poetico del Novecento. Prima di Satura le interpretazioni che esse offrivano, per quanto di autori diversi per impostazione teorica e talora per poetica, erano tuttavia convergenti nella classificazione storiografica della poesia montaliana. Fra gli anni Quaranta e Sessanta, dalle antologie di Anceschi (1943) e di Anceschi-Antonielli (1953) a quelle di Contini (1968) e di Sanguineti (1969), si è continuato a indicare, come asse del canone novecentesco, la linea dei «lirici nuovi» ed ermetici culminante in Ungaretti e in Montale. E va da sé che Anceschi o Contini da un lato e Sanguineti dall’altro delineavano bilanci e progetti diversi del Novecento: i primi due avevano in mente un modello di evoluzione sostanzialmente unitario, ruotante intorno al simbolismo e al postsimbolismo, e cioè una linea che, muovendo da Campana interpretato in chiave prevalentemente orfica o da un primo Ungaretti letto già come simbolista e “poeta puro” giungeva, attraverso Montale, a Quasimodo, Luzi, Sereni, Zanzotto; invece Sanguineti ipostatizzava uno schema binario che poneva sì al centro Ungaretti, Montale e gli ermetici, ma per contrapporre loro il filone alternativo dell’avanguardia, che da Lucini, Gozzano e Campana, questa volta interpretato in senso espressionista, sarebbe giunto sino ai «novissimi».

In conclusione, dalle antologie, pure ben diverse fra loro, uscite prima di Satura, risulta un quadro della poesia novecentesca fondato sul predominio di un canone unitario in cui rientrerebbero sia Saba, sia Ungaretti e Montale. Ne risultavano così appiattite le differenze: tanto nell’antologia di Contini quanto in quella di Sanguineti non solo veniva sacrificato Saba (che non appartiene al novero dei poeti simbolisti e postsimbolisti e neppure aderisce alla linea delle avanguardie), ma lo stesso Montale veniva schiacciato su Ungaretti e imprigionato in una collocazione che al lettore d’oggi appare sicuramente troppo stretta. Non sembra privo di significato, per esempio, per restare nell’ambito dell’esplicito conflitto delle poetiche, che Montale non abbia mai nascosto le sue simpatie per Saba, o, in direzione diversa, per alcuni poeti sperimentali (da Govoni a Gozzano ai vociani), e la sua polemica lontananza, invece, dal postsimbolismo ungarettiano. Anzi, le obiezioni montaliane a una poesia che punti all’assoluto e che, in nome dell’essenza, dimentichi l’esistenza mostrano il carattere inconciliabile della sua contrapposizione a Ungaretti. L’opposizione Ungaretti-Montale indica dunque un’alternativa che, dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, divide radicalmente la lirica “alta” della tradizione novecentesca, suggerendo due esiti ben diversi alla poesia successiva: non sarà certo un caso che i già ricordati poeti della «parola innamorata» optino decisamente per il primo contro il secondo.

- tratto da: Romano Luperini, "Montale e il canone poetico del Novecento", 8 febbraio 2013, su: www.laletteraturaenoi.it

Per il testo completo, si veda:

http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/85-montale-e-il-canone.html

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